STATEMENT  

Elizabeth Aro is a visual artist who explores through her installations, objects and research the poetic space and alternative modes of perception of culture and society. In the last years, she produced a group of pieces which focus on the circulation of blood and the way energy travels through the body, building a map which details the structures behind vital flows. Her work proposes an intuitive journey through the geography of emotions, beginning with the first huge pulse of the essential engine, the heart, and which branches out throughout the entire series of sculptures. The association with the actual reality and memories (private and collective) is the underlying motive in her work. By combining images from her own life and diferents inspirations the reality becomes tangible in images. The human figure is also central in her photos. Being interested in the psychological and emotional relationship of human beings with their enviroment, Elizabeth Aro explores the different ways architectural surroundings influence the spectator - both mentally and physically: intervening or integrating, she engages with specific installations, creating pieces of poetic density where imagination and reverie are bleeding into reality. She creates interdisciplinary media installation in gallery context and public spaces including installations photos, drawings and video.


 
       
CATALOGUES   Catalogo Rehenes/Ostaggi en Sala Santa Rita  
       
TEXTS      
   

Finissage Elizabeth Aro pubblicato il 8 gennaio di 2018. Testo di Andrea Rossetti per Exibart

L'utilizzo prevalente di stoffe e fili non fa l'artista, proprio come non è l'abito a fare il monaco. Questo perché la specificità poetica di Elizabeth Aro (Buenos Aires; vive e lavora a Milano) non viene decantata solo dai materiali, né dalla blasonante riesumazione della macchina da cucire, strumento prettamente femminile in Argentina e nell'immaginario collettivo utile a qualsiasi casalinga immersa tra orli e ricami. O perché, introducendo il suo lavoro, l'artista dice «sotto l'ago passo di tutto, sperimento diversi materiali». Più a monte c'è qualcosa molto meno esotico per l'intellighenzia dello Stivale, e sta nell'atto di piegare la macchina al proprio volere, sovvertendone con spirito d'iniziativa "alla Munari” la funzionalità. E il cerchio non è ancora chiuso, c'è ancora quell'agire in ottica munariana ma con mentalità femminile, con un'azione che rivendica la propria appartenenza ad un genere senza sentirsi migliore o peggiore, senza dover urlare o mettere striscioni. Senza mascherarsi da uomo o sentirsi una wonder woman.
Arte come processo disfunzionale e femminile, convogliato ad esempio nell'insolita ibridazione tra citazioni di Man Ray e ritmate serie di punti d'oro ricamati a macchina; un filo, passato e ripassato sulla carta fotografica con attenzione, con una propria regolarità nel formare sottili aloni allegoria del sogno, che è «quella fase in cui la persona è pienamente libera» come racconta l'artista. Un'azione dal background sibillinamente provocatorio nel momento in cui affida tutta la sua delicatezza al ruolo di un ago, elemento che per logica di delicato non ha proprio un bel nulla. Probabilmente - e nessuno se la prenda a male - una mente maschile non ci sarebbe arrivata, per svariate ragioni.

Curare la variabilità del mezzo espressivo è la chiave del successo in una personale tanto mixed media come "Provisorio para siempre”, titolo preso a prestito da un modo di dire molto utilizzato in Argentina. «Lo diceva sempre mio papà» racconta la Aro, facendo capire come dall'unione di tutti i suoi lavori in questa personale trasudi un vissuto, una visione antropologica applicata all'arte contemporanea. E nel suo essere artista la Aro è un po' antropologa dei due mondi, ed è questo a rendere le sue operazioni qualcosa di unico nel panorama contemporaneo, anche nel loro innegabile fondo decorativo. A restituirle perciò la capacità di vestire i panni della fotografa per concentrarsi su scatti che indagano il linguaggio universale e simbolico delle mani, vera novità di questa personale; per tornare poi nuovamente ad utilizzare la macchina di sproposito, piegando l'ingessata creatività del macchinario e dei suoi punti cadenzati a qualcosa di libero, la sua razionalità in un linguaggio imprevedibilmente narrante. Un cucito concettuale nella compressione che attua sui The Others, figure di migranti incerte della propria presenza e chiuse dentro sedicenti "bolle” di filo colorato, sviluppate dall'artista con un atteggiamento compulsivo di tutto rispetto espressionistico. Inevitabilmente, come conferma la Aro, «il filo diventa un elemento pittorico», un tratto grafico riadattabile in intensità ed a volte talmente ripassato da diventare aggettante, plasticamente simile ad un bassorilievo, per la precisione allo "stiacciato” di donatelliana memoria.
Azione e materiali, azione sui materiali che per la Aro si traduce nelle pesanti fantasie di stoffe imbottite che «si sono stancate di rivestire divani» e ricucite, ad esempio, sotto forma di astrazione grafico-individuale (come spiega la Aro «una scritta in cui ognuno può leggere quello che vuole») in operazioni come Written shape. O nel grosso albero in etereo broccato bianco che dà titolo alla mostra, in cui l'artista enfatizza l'uso del colore dicendo «il bianco è quello che c'è dentro di noi, simbolo della vita» e di un tessuto che a suo dire «è come la pelle», lavorato a contrasto con la ruvidità pungente della grande struttura in legni di recupero che ne sostiene - e certifica - la provvisorietà. Invitante ed accogliente, «il bello di quest'installazione e di essere riadattabile, prende la forma di ogni spazio» spiega la Aro. Provvisorio - e site specific - per sempre.

 
       
   

Elizabeth Aro. La memoria, l’equilibrio delle forme e l’altro.testo di Patrizia Varone pe rArtsLife

Elizabeth Aro ci racconta l’idea di arte che elabora nelle installazioni. Nella personale Los Otros di Torino nel 2016, il filo spinato di velluto si trasformava in un elegante e raffinato oggetto che diventava attraversabile e rimandava al sogno di confini superabili. I tessuti, tra cui il velluto, richiamano un mondo elastico e malleabile di cui l’artista ne è interprete

Tra gli artisti che partecipano alla mostra collettiva “Chronos. L’arte contemporanea e il suo tempo” (dal 21 aprile 2017 al 20 maggio 2017 – sedi varie nel bergamasco) sarà presente anche Elizabeth Aro l’installazione di una rete di velluto, Red Net, di 10 metri per 5 a Palazzo Vezzoli a Calcio.

“Lavorare con il tessuto per me è utilizzare il materiale più delicato per affacciarmi a un mondo più flessibile, più onirico, elastico, malleabile. Dei tessuti mi piace la sensazione che contengono un ritmo proprio di cui l’artista ne è solo l’interprete. Mi interessano i materiali nobili e i tessuti elaborati. L’Italia è talmente ricca in questo che essermi trasferita qui ha influenzato il mio lavoro”.

Elizabeth Aro è argentina e ha stabilito a Milano la sua residenza. Utilizza vari linguaggi e materiali per realizzare le sue installazioni. Molto spesso frutto di una interazione tra scultura e fotografia, le opere che crea hanno una forte impronta concettuale. “Credo che ogni idea tenga un suo modo di esprimersi concreto che si traduce nella fisicità dell’opera d’arte – spiega l’artista -. Lavoro contemporaneamente a vari progetti e il tempo non è importante”.

Le opere della Aro sono improntate ad un’azione lenta che rimanda al mondo femminile e al contempo alla rappresentazione del “noi” e alle radici. “Non posso immaginare un’arte che non abbia niente da dire – chiosa Elizabeth Aro -, noi artisti costruiamo un mondo proprio. Mi piace pensare che ognuno di noi fa una ricerca di un universo parallelo del quale vediamo solo la punta del iceberg in una mostra. Entrare nel mondo di un artista è in qualche modo seguire le sue regole. Le mie sono mantenere un silenzio e un’armonia che stanno alla base di tutti i miei lavori. Il lavoro con il tessuto, nel mio caso, è lento perché è l’opera stessa a decidere cosa devo fare”.
E continua “Ho sempre pensato all’arte come a qualcosa che induce a riflettere, un luogo in cui tutte le discipline si incontrano e in cui ha molta importanza il processo creativo dove il concetto è essenziale tanto quanto la produzione. Io produco oggetti pensanti, che rispondono a domande e si interrogano, che si svegliano quando posiamo lo sguardo su loro e ci fanno attivare le diverse aree del cervello per evocare, ricordare, riconoscere e ricostruire il proprio io in un modo diverso. Nessuna opera che vediamo è innocua, tutte hanno un messaggio che ci fa stare attenti a noi stessi anche solo in forma inconscia. E, in tutto questo, la bellezza resta una forza elegante che voglio tradurre in immagine”.

Elizabeth Aro riconosce le influenze nell’elaborazione del suo modo di fare arte. “All’inizio della mia carriera – racconta -, quando facevo pittura, sia il rigore dei minimalisti sia Joaquin Torres Garcia mi avevano suggestionata notevolmente. Cesar Paternosto, nonostante viva a New York, è sempre stato il mio mentor con le sue opere di visione obliqua. Dopo hanno impresso la loro impronta Eva Hesse e Ana Mendieta, negli anni ’90 Rosmarie Trockel e più di recente Kiki Smith. Mi piace seguire tutta la loro opera, e il rapporto tra lavoro e vita quotidiana. Trovo ingiusto, però, che ancora oggi l’arte delle donne è l’arte delle donne mentre l’arte degli uomini è semplicemente arte”.

L’arte di Elizabeth Aro segue svariati orientamenti e sviluppi. “Ci sono due linee fondamentali nel mio lavoro – esplica -. Una è nell’equilibrio sinuoso delle forme che creo mediante una ridefinizione del concetto di bellezza e focalizzando l’attenzione su dettagli inaspettati, memorie quotidiane ed esperienze personali. Trasformo le dimensioni emotive e mentali della condizione umana in opere dove si mescolano fotografia, disegno, stoffa e filo. L’esistenza appare smaterializzata in visioni parziali ed evocative, dotate, però, di grande fisicità.

L’altra linea – continua la Aro -, estremamente legata alla prima, è la presenza dell’altro. Un tema l’Altro presente nella nostra contemporaneità. Un tema filosofico che ha interessato profondamente lo scrittore argentino Jorge Luis Borges che ammiro moltissimo, che in realtà si rispecchia nella concreta vita quotidiana. Altro da chi? Diverso in che senso? Chi è l’altro? Il diverso? Siamo anche noi, diversi da loro? Da quale punto di vista diciamo Altro? Iniziando dalla mia propria storia io vivo come altro da 25 anni in Europa. Così ho realizzato una serie di fotografie di formato più grande della misura umana (340 x 170 cm). Sono ritratti di migranti arrivati a Madrid da diversi punti del pianeta. A questi ho aggiunto l’opera filo spinato un’installazione in velluto per la mostra di Torino nel 2016 dove il materiale si converte in un oggetto delicato ed elegante che non separa più. In questa installazione infatti il visitatore può attraversare i fili. Mi piace che rimandi all’idea di oltrepassare i confini.

Infine la riattivazione della memoria si impone come tema che sottende al mio lavoro. Estudio sobre nubes è basato su un poema di Jorge Luis Borges in cui si parla del cambiamento delle cose nel tempo. Nel poema si dice che non ci sarà una sola cosa che non sia una nuvola. Le nuvole diventano metafora del pensiero che vuole raggiungere un desiderio. E questo s’interseca con l’interesse a riflettere sullo stato interiore dei sentimenti: i nostri sentimenti cambiano costantemente. Le nuvole rispecchiano questa condizione: si intrecciano come un telaio e dilapidano il loro contenuto etereo tra il cielo e la terra. La poesia finisce dicendo Sei nuvola. Sei mare, sei oblio. Sei anche quello che hai già perduto”.

Una personale alla Nuova Galleria Morone di Milano in calendario entro il 2018 e a maggio una mostra su un lavoro di ceramica e seta alla Galleria Canepaneri di Milano sono le ulteriori tappe che attendono l’artista.

Elizabeth Aro ha frequentato la Escuela Nacional de Artes Plásticas en Buenos Aires e immediatamente dopo ha viaggiato per tutto il sudamerica documentandosi sui segni e simboli della America indigena. Dall’87 partecipa a mostre collettive quali: VII Biennal Iberoamericana de Arte al Museo, II Bienal de Cuenca, Ecuador e Ideas e imagenes de Argentina nel Bronx Museo de New York.
Nel 1990 si trasferisce a Madrid e partecipa a mostre in Europa. In questo periodo entra in contatto con una vasta gamma di artisti che lavorano con formati non tradizionali, come Pello Irazu, Miraslow Balka, Perejaume e Mabel Palacin.
Nel 2005, dopo la mostra personale al Museo d’Arte Reina Sofia, si trasferisce in Italia, paese in cui vive. Partecipa a molti progetti artistici e culturali con l’associazione Big Bang Project. Del 2009 la residenza a Kaus Australis a Rotterdam. Partecipa ad una residenza artistica prima al Cairo, come artista italiana in un progetto dove si utilizza il cotone egiziano, e poi a Istanbul a cui segue una personale a Pasajist. Nel 2015 durante l’Expo espone nella chiesa di San Carpoforo a Brera e realizza una installazione nella chiesa sconsacrata di Augsburg, Moritzkirche. Da qui ancora in residenza artistica a Essaouria in Marrocco per la Biennale di Casablanca e recentemente in Francia allo Chateau La Napoule di Cannes.

 
    http://www.artslife.com/2017/04/10/elizabeth-aro-la-memoria-lequilibrio-delle-forme-laltro/  
       
   

Mundo e Los Otros di Elizabeth Aro - Testo di Federica Maria Marrella per Artspecialday

Non avevo mai pensato alla migrazione come una danza.
Invece forse è il primo passo che si dovrebbe fare, per comprendere.
Una danza di corpo, di preghiera, di cadute.
Di anime salve e dannate, di anime gallegianti e dolenti.
Di colpi, presi, di corpi che si accasciano.
Di occhi verso il cielo. A pregare.
A cercare risposte, a domande che è anche difficile porsi.
Una danza sul mondo che scivola.
E scivola.
A tenerti stretto solo il corpo.

Elizabeth Aro è nata in argentina a Buenos Aires, ha studiado Belle Arti all'accademia Prilidiano Pueyredon di Buenos aires, IUNA. Dal 1990 a 2006 ha vissuto a Madrid e attualmente vive en Italia. Questa affasciante mostra è stata già realizzata a Milano, nella ex chiesa di San Carpoforo dell'Accademia di Brera.

Partiamo dalla costruzione dell'esposizione.
La mostra a Torino si sviluppa in due spazi di percorso. Nell'atrio ci sono tre installazioni: Mundo, una sfera, nel centro della sala, di feltro cucito dall'artista e di ben tre metri di diametro; Los Otros, fotografie di grandi formato che Elizabeth Aro ha realizzato per il Museo Reina Sofia di Madrid in occasione di una sua mostra personale; quattro schermi video - documentari realizzati nel 1998, un mix di interviste realizzate da Elizabeth a diversi migranti. Questo è stato il primo passo realizzato dall'artista per affrontare il tema della migrazione. Nella seconda sala sono esposte le fotografie di Los Otros in piccolo formato, modificate e raccolte in fili rossi, fili che ha cucito l'artista sulle fotografie stesse. Infine, un'installazione di filo spinato, creato con il velluto: un filo spinato, quindi, disarmante e disarmato, leggero e innocuo. Solo una profonda evocazione.

Ora, pensiamo al titolo.
Il mondo e gli altri. Il tema dell'Altro è sempre presente sopratutto nella nostra contemporaneità. un tema filosofico, che in realtà si rispechia profondamente nella concreta vita quotidiana. Altro da chi? Chi èl'altro? Il diverso? Siamo anche noi, altri da loro, giusto? da quale punto di vista di dice Altro?
IIl monto di feltro che oscilla dall'alto del soffitto è un elemento emblematico di questa questione. Il mondo non ha un solo punto di vista. E sopratutto sembra scivolare verso il sud. Verso il basso. Verso quella parte del mondo che si chiama, nelle nostre parole, molto spesso, Altro. Gli altri.
E OE allora gli altri sono fotofrafati sulle pareti, immensi e presenti. Abbracciano quel mondo in sordina, color panna, di feltro. Feltro, materiale povero e tattile. Feltro, cucito dalle mani dell'artista. I continenti sono risucchiati verso il sud del mondo. Un movimento verso il basso. Non solo più gli altri che migrano verso il nord, ma sono i continenti stessi che scivolano verso Sud, verso quella parte di mondo che ha più bisogno di cure.

Elizabeth Aro, Ritratto, Los Otros.
Ora, un pARTicolare.
Tra le foto di Los Otros, uomini e donne danzanti, con corpi morbidi, flessibili, che si alzano, cadono. E sembrano prendere colpi da ogni dove. Un "dove", però, non visibile. Intorno a loro, solo il nero. Il nero che si avvolge, ma che allo stesso tempo li rende più vivi, tridimensionali. Luce e colori a tornire le forme. Ma un uomo, soprattutto, mi colpisce. E mi ricorda qualcosa. Un uomo, magrissimo, una camicia rossa.

Una luce lo ilumina dall'alto.
Vene sulle mani. Camicia e pantaloni accartocciati. La luce si intreccia in queste linee di infinito.
Le labbra tristi, con gli angoli della bocca che scivolano verso il basso. Come i continenti scivolano nel sud.
La OrLa mano sinistra ad abbracciarsi. La mano destra, lunga e distesa sulla sua gamba. Una posa quasi malinconica, il chiasmo della carne e del corpo rimanda alla statuaria greca, sempre alla ricerca di equilibrio e armonia: un braccio in alto, uno in basso, una gamga indietrto e una avanti, a creare una X , a creare anche una croce.
Eccola la croce. Eccolo il ricordo.

I colori, le ombre, la luce che illumina e distrugge il buio. La luce che rende vivo ogni elemento del corpo e del volto. E quella posa come dolorante, come se il corpo, in questo momento, fosse colpito intimamente da qualcosa, o qualcuno.
Eccolo, il ricordo.
La Flagellazione di Cristo (1607 - 1608) di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio: Il Cristo al centro, quel drappo bianco. La luce e le ombre. Una danza, i suoi piedi, il suo corpo accovacciato dal dolore, ma sempre elegante e robusto. I sicari intorno a lui, quasi nascosti dalle ombre.
Una luce, dall'alto, illumina il Cristo. 
Il suo sguardo verso il basso. uno sguardo di chi soffre, ma di chi sa, di chi sa, di chi accetta il dolore, in nome dell'amore del mondo. Lui. figlio di Dio. Dio in terra.
Lo sguardo dell'uomo ritratto da Elizabeth, però, punta verso l'alto. E lo sguardo di chi ancora per fortuna, spera di vivere. Di chi lotta per vivere. Di chi non accetta subendo il "calice amaro" della morte e della risurresione.  
Anche perchè l'uomo sa che, in questa vita, non potrà risorgere.
E allora, a quel mondo dal soffitto si attacca.
A quel buio si ribella.
Da quel dolore si difende.
E al cielo, guarda. Pregando nel silenzio.
Non avevo mai pensato alla migrazione come una danza.
Invece forse è il primo passo che si dovrebbe fare, per comprendere.
Una danza di corpo, di preghiera, di cadute.
Di anime salve e dannate, di anime galleggianti e dolenti.
Di colpi presi, di corpi che si accasciano.
Di occhi verso il cielo. A pregare.
A cercare risposte, a domande che è anche difficile porsi.
Una danza sul mondo che scivola.
E scivola.
A tenerti stretto, il corpo.
E la luce della speranza.

 

 
   

Elizabeth Aro- BIG SHOW - Texto de Mireia A. Puigventós en revista Artecontexto www.artecontexto.com

Spanish version
Operar dentro del cuerpo humano es saber moverse por avenidas y calles arteriales que conforman un entramado complejo de vasos comunicantes. La artista argentina Elizabeth Aro presenta en la galería Metta de Madrid “Big Show”, un conjunto de piezas realizadas en los últimos cuatro años, que evocan la circulación del flujo sanguíneo y el tránsito de energía configurando un verdadero mapa sobre la formación de corrientes vitales.

La exposición plantea un recorrido intuitivo por la geografía de las emociones que comienza con el gran impulso del motor esencial, el corazón y que se ramifica por toda la sala. “Big Show” se compone de una serie de esculturas de tela, fotografías y dibujos urdidos, cuyos principales recursos de suturación son el hilo y la aguja. La artista usa la técnica del tejido como un referente artesanal milenario y una actividad simbólica que conecta caminos y trenza las relaciones humanas. Dentro de las secuencias temáticas destaca la instalación Santa Sangre, una masa de apéndices aterciopelados en clave barroca inspirada en la plástica visual del film (1989) con mismo título de A. Jodorowsky. Las extensiones se deslizan como un río de sangre trasladando al espectador la idea de martirio pero también de cordón umbilical, éstas se entrelazan como columnas salomónicas marcando la suntuosidad del rito y el decoro de un escenario carnal. Las prolongaciones membranosas conducen a la serie de Red Net: una pieza central en forma de capullo de tela de araña confeccionada en terciopelo integrado de algodón sintético. En esta ocasión Elizabeth Aro analiza la fisonomía del engaño a partir de una estructura de enredos tan delicada como consistente. Con ello logra proyectar una dimensión psicológica gracias al comportamiento formal de los materiales textiles que emplea. El proceso de ocupación espacial por filamentos confiere al conjunto de la obra un sentido de ritmo interno, que origina la aparición de tramas suspendidas en el aire y de formas anamórficas sobre la superficie. Igualmente la serie Branches, se presenta como un cuerpo de terciopelo cuyas raíces parten del mismo punto y se ramifican originalmente en un walldrawing creando un perfil de líneas abstractas. La combinación del tejido y del dibujo apela a la percepción de una piel orgánica que se regenera sin cesar.

El concepto de vía arterial y de corriente sanguínea muta a lo largo del recorrido expositivo estableciendo un diálogo entre la propia obra y el contexto arquitectónico de un modo casi litúrgico. Cada elemento se adapta al entorno que le rodea como un ser vivo. Así mismo, la serie Encompas está formada por un grupo de producciones (escultura, fotografía y dibujos cosidos a mano), concebidas como manifestaciones de nuestro mundo interior. Gran parte de la puesta en escena refleja un concierto de imágenes que se enredan en la mente, señalan pensamientos y obsesiones que inmovilizan el cuerpo. Prueba de ello son las fotografías expuestas que dejan ver el modo en que unos tentáculos actúan como extremidades que apresan al hombre. Del mismo modo, colgado en la última sala de la galería se exhibe un monumental vestido, acompañado de un vídeo en el que aparece una modelo atrapada en la prenda tratando de escapar de sus garras. Ambos ejemplos son alegorías de algo que sucede en el inconsciente y que nos abraza-atrapa entre sus redes. En los dibujos bordados con máquina de coser, la artista se abandona a la improvisación perfilando un juego poético de líneas y figuras cargadas de simbolismo.

Son muchas las mujeres artistas que han utilizado la técnica textil para poner de relieve la expresividad estética del método y de los materiales (hilos, lanas, fibras…) que sugieren un mundo de sensaciones táctiles y visuales relacionadas con la experiencia. Principalmente a partir de las reivindicaciones del arte feminista ("The Subversive Stitch: Embroidery and the Making of the Feminine" 1984, Rozsika Parker) y el énfasis en la práctica discursiva de la identidad. Por citar diferentes casos, pensemos en los cuerpos femeninos bordados por Ghade Amer, en la incorporación de la fibra en las esculturas geométricas de Jackie Winsor o en las piezas de arte minimalista de Eva Hesse. El tejido constituye un registro de los pensamientos y su manejo un modo de crear tramas. Elena del Rivero apunta que la lejanía empuja al desafío de trabajar con el cosido por ser una acción que acorta las distancias. Elizabeth Aro ensambla conductos arteriales para llegar a las profundidades del ser humano. Su trabajo conecta con lo visceral y nos transporta a un lugar donde se urden el arte y la vida.

English version

Operating within the human body requires the ability to navigate arterial roads and avenues which make up a complex network of communicating vessels. The Argentinean artist Elizabeth Aro presents at the Metta gallery, in Madrid, Big Show is a group of pieces produced in the last four years, which focus on the circulation of blood and the way energy travels through the body,building a map which details the structures behind vital flows.
The exhibition proposes an intuitive journey through the geography of emotions, beginning with the first huge pulse of the essential engine, the heart, and which branches out throughout the entire exhibition space. Big Show is made up of a series of fabric sculptures, photographs and contorted drawings, whose main suture materials are a needle and thread. The artist uses sewing as a way to pay homage to an ancient craft, as well as to a symbolic act which connects paths and interweaves human relationships. Within the thematic sequence which make up the show it is worth noting the installation Santa Sangre (Saint Blood), a mass of velvety appendages arranged in a Baroque way, inspired by the visuals of the film of the same title directed by Alejandro Jodorosky in 1989. The extensions slide down like a river of blood, conveying to the viewer the idea of martyrdom but also that of the umbilical cord, and are intertwined, as if they were Solomonic columns, highlighting the sumptuousness of the rite and decorum of a carnal landscape. Membrane-like extensions lead to the Red Net series: a central piece in the shape of a spider's web cocoon made from velvet woven with synthetic cotton. On this occasion, Elizabeth Aro analyses the anatomy of deceit on the basis of a structure of knots which is as delicate as it is dense. In this way, she succeeds in projecting a psychological dimension thanks to the formal behaviour of the materials used. The process whereby the space is occupied by filaments lends the work as a whole a sense of an internal rhythm, which gives rise to the emergence of branches suspended from the ceiling and of anamorphic forms on the surface. In the same way, the series Branches is presented as a velvet body whose roots all grow from the same spot, branching out into a wall drawing which creates an abstract shape. The combination of the fabric and drawings appeals to the perception of an organic skin which constantly regenerates.
The concept of arteries and blood flow changes as we move through the exhibition,establishing a dialogue between the work and the architectural context in an almost liturgical way. Each element adapts to its surroundings, like a living being. Thus, the series Encompass is made up of a group of works (sculptures, photographs and hand-sewn drawings) conceived as expressions of our inner life. A large part of the series reflects a symphony of images which show the way in which tentacles move like limbs, trapping a man. In the same way we find, hanging from the celiling in the last room, a monumental dress, accompanied by a video which potrays what happens in the subconscious mind embracing or trapping us in its web. With her pictures sewn with a sewing machine, the artist allows herself to improvise, drawing a poetic play of lines and figures which ooze symbolism.
There have been many female artists who have used textile techniques to highlight the visual expressiveness of the method and the materials (threads, wool, fibres, etc) which suggest a world of tactile and visual sensation linked to experience. It has been particularly popular since the early days of feminist art (The Subversive Stitch: Embroidery and the Making of the Femenine, Rozsika Parker, 1984) and the subsequent emphasis on the discursive practice of identity. To mention a few cases, let us think about the female bodies embroidered by Ghada Amer, the use of fibres in the geometric sculptures by Jackie Winsor and the minimalist art pieces by Eva Hesse. Fabric constitutes an archive of thoughts, and manipulating it is a way of creating structures. Elena del Rivero points out that distance is one of the things which encourages artists to work with needle and thread, as sewing is an action which brings things closer together. Elizabeth Aro assembles arterial channels in order to reach the depths of the human being. her work is linked to the visceral, and takes us to a place where art and life are created.

 
   

El teatro del Yo y el éxtasis del vacío. texto curatorial de Javier Ferrer, comisario de la exposición "Dreams, sobre la importancia de soñar despierto"

“Hoy Narciso es el símbolo de nuestro tiempo”

Gilles Lipovetsky

Será Nietszche, quien explicará la fortaleza de los sueños en su innegable carácter privativo, y dirá “ ¡Nada es más enteramente vuestro que vuestros sueños. Sujeto, forma, duración , actor, espectador, en estas comedias sois completamente vosotros”.En nuestra contemporaneidad el Yo ocupa todo el espacio disponible, vivimos una mutación antropológica que nos vuelca hacia una edad de oro del individualismo, por ese motivo toda la representación postmoderna se explica desde el yo, hacia el yo, en el yo, y para el yo.La res publica está desvitalizada, las grandes cuestiones filosóficas neutralizadas, la banalización instaurada.Sólo sobrevive la esfera privada, la hiperinversión de lo individual es manifiesta, es el fin del “homo politicus” y el renacimiento de Narciso.Importa vivir el presente, el futuro ya no es lo que era, y el pasado no importa, no hay sentido de continuidad histórica.

En ese escenario del vacío, es necesario proteger y reciclar el aquí y ahora, lo inmediato es definitivo, sin tener en cuenta tradición ni posible evolución.

En la era del yo, y Narciso obsesionado no sueña mas que en él mismo, trabaja en su propia liberación y renuncia al amor por los otros, en pos de un autoerotismo ontológico.

El inconsciente del “homo psicologicus”, antes de ser imaginario o simbólico, teatro, máquina o artefacto, es un agente provocador cuyo efecto principal es un proceso de despersonalización, de encuentro con lo reptiliano.

Lipovetsky lo describe de esta forma, “ Ampliando así el espacio de la persona, incluyendo todas las escorias en el campo del sujeto, el inconsciente abre el camino a un narcisismo sin límites”.[1]

No obstante lo más demoledor, no es la pérdida del universo social, sino la pérdida de las propias referencias del Yo, el ego es un conjunto impreciso, no es ya una realidad rígida regida por principios, es un magma sin sustancia, sin voluntad, sin centro de gravedad, sin jerarquía, a la deriva.

Elizabeth Aro, nos presenta un remake de la obra de Man Ray “ Noire et Blanche” sin la máscara africana, a cambio el rostro del soñante se envuelve en un bucle, en un círculo áureo, de campos magnéticos que atrapan.

Parece extraña metáfora del viaje a ninguna parte que emprende el ser humano actual, zarpar sin rumbo en una búsqueda sin aventuras, sin voluntad de determinación, en constante autoabsorción.

En esta obra el yo se convierte en un “espacio flotante”, en el que se licua y se desvanece la identidad, en el que el culto a la personalidad funciona como agente de la despersonalización, una disponibilidad pura, adaptada a las permutaciones y experimentaciones de espíritus caprichosos.

Elizabeth que se declara geógrafa de las emociones, una actividad simbólica que conecta caminos y trenza las relaciones humanas, se dirige a la psique, y cose con determinación el tejido de nuestra materia inasible.

[1] Gilles Lipovetsky, La era del vacío, Anagrama, Barcelona 2009

 
       
 
Il silenzio di Elizabeth - Olga Gambari


Ci vuole silenzio per sentire i lavori di Elizabeth Aro.
Il silenzio è la condizione nella quale appaiono i suoi, i nostri pensieri, le sue e le nostre visioni, i sentimenti, le ossessioni. Prima, lievi e accennati; poi, sempre pi_ marcati e impetuosi. Aro de forma a quelle nebulose mentali ed emotive che assorbono l’uomo, gli riempiono l’anima, lo avviluppano in una tela di ragno. Sono fili, patterns e traiettorie invisibili, eppure così concreti e presenti da determinare il corso dell’esistenza. A volte fino a soffocarla. Aro non vuole perdere nessuna di quelle trame. Le pone al centro del suo lavoro. Lentamente le identifica, le osserva, ne segue il disegno e le dinamiche evolutive. Vuole fissarne le tracce immateriali. Marca stretto innanzitutto se stessa e poi gli altri, comprendendo l’intimità personale in un respiro comune.
Il processo artistico diventa un rituale, che richiede tempo, dedizione, manualit‡ e partecipazione totale.
Aro parte da analisi introspettive di riconoscimento e appropriazione del proprio flusso psico-emotivo, tra memoria e inconscio. Ne ricava una materia che poco a poco ricompone : la visualizza filandola e poi ricamandola su carte e fotografie, oppure tagliando e cucendo stoffe. Opere concettuali di grande fisicità, trattate come corpi artistici profondamente attraversati e vissuti.
Il percorso di Elizabeth Aro è sempre stato in parte diario autobiografico, in parte ricerca psicoanalitica della condizione esistenziale. I suoi lavori sono storie esemplari con le quali non vuole perdere nulla di sè. Pensieri e sentimenti, claustrofobie che le appartengono assolutamente. Insieme formano un catalogo iconografico attraverso cui l’artista cerca un dialogo con il mondo, un luogo condiviso con gli altri che possa creare comunicazione. Un catalogo scritto per immagini che rappresenta la sua personale comedie humaine.
Nei disegni appare l’individuo, una piccola figuretta anonima di plastica bianca, al centro di evoluzioni labirintiche di filo e metallo cuciti. Singolo o in coppia, l’essere umano Ë presenza lillipuziana nelle composizioni su foglio, sormontato e portato in volo dal suo pensiero, che si fa angoscioso, poi giocoso, poi ossessivo, comunque invadente, dominante.
L’artista, perÚ, governa con forza e armonia la narrazione :la imbriglia e ricompone in strutture razionalizzate, dal carattere perturbante. Lo stesso accade nelle sculture in stoffa, tratti intestinali e cerebrali che divampano, si allargano, corrono negli spazi espositivi come vegetazioni inquietanti, cresciute nell’ombra. Disagio quindi, eppure anche attrazione per i magnifici tessuti di cui sono fatte, damaschi e velluti preziosi. Una dinamica contemporaneamente di seduzione e repulsione, che si ritrova nel rapporto con il nostro inconscio, nell’eterna lotta tra bene e male, luce e ombra. » un’altra sfaccettatura ancora della condizione umana.
Nel tentativo di esorcizzare il magma irrazionale, Aro dona a queste realtà amorfe sostanza e sensorialità adesso hanno una faccia e ci si pongono davanti. Evocano altro. Sono figure simboliche che prendono vita in stoffe, filo, metallo: una fisicit‡ tridimensionale che va dall’altorilievo alla scultura.
In “O silencio” ci si specchia nei suoi autoritratti, che sono al tempo stesso ritratti: ci si riconosce in immagini che sembrano appartenerci, anche con sorpresa. L’artista, osservando sÈ, Ë arrivata dentro di noi, scavando tra le pieghe e le ombre, spesso sconosciute, della nostra interiorit‡.
Micromondi paralleli come bolle di sapone, che si alzano chirurgiche e poetiche dal respiro dell’artista: siano disegni o fotografie, siano installazioni scultoree dalle sinuosit‡ organiche o collane votive di lacrime e vetri, siano abiti simili a simulacri, a costumi di scena pirandelliani, o libri d’artista in forma di testi sacri. Il silenzio le avvolge. Loquace.

 

 
 
Elizabeth Aro
presentata da
Maria Cristina Strati - revista online Spruzz
   
 
Il lavoro di Elizabeth Aro si distingue fin dal primo sguardo per le qualità insieme potentemente estetiche e profondamente concettuali dei risultati.
Credo che questa premessa costituisca la cifra fondamentale che consente di comprendere a fondo la sua ricerca.
In queste opere infatti i due aspetti potenzialmente tra loro contrari (estetico e concettuale), si incontrano e si conciliano in maniera del tutto armoniosa, anzi cogente.
 
Il lavoro appare completo nell’equilibrio sinuoso e sempre dinamico delle forme, che sono disegnate insieme in sé stesse, isolatamente, e dal ripiegarsi su se stesse delle stoffe cucite.
La delicatezza e la ricchezza dei materiali impiegati (come velluto o broccati), così come le tecniche elaborate e antiche a cui l’artista ricorre (l’atto del cucire e del ricamare che ritorna tanto nelle installazioni e nelle fotografie) colpiscono l’attenzione del fruitore. Ma soprattutto, e allo stesso tempo, il lavoro rivela una qualità di contenuto che va ben oltre un rigido concettualismo, esprimendo le proprie tensioni, pensieri e riferimenti culturali proprio attraverso la bellezza del risultato.
Tale bellezza non va intesa nel senso di un apparire piacevole e conciliante, come se il fare dell’artista indulgesse nelle debolezze dello spettatore per captarne la benevolenza. Al contrario qui la bellezza delle opere si impone con forza, pur senza mai cadere in eccessi, facili seduzioni visive o effetti inutilmente ridondanti.
In tal senso il lavoro di Elizabeth Aro potrebbe essere definito come simbolico. Non nel senso delle correnti storico artistiche novecentesche, ma per la caratteristica propria dei risultati, in cui forma e contenuto diventano un tutto unico e si identificano.
Si potrebbe dire che, se per Benedetto Croce l’opera d’arte nasceva dall’accordo perfetto tra forma e contenuto, che erano però concepiti come due concetti del tutto diversi e tra loro separati, qui siamo di fronte a un punto di vista radicalmente differente. La ricerca artistica di Elizabeth Aro sembra piuttosto aver da fare con la nozione di simbolo di matrice hegeliana, secondo la quale l’opera d’arte simbolica s’intreccia al proprio contenuto non attraverso la forma, come per suo mezzo, ma in quanto essa è ontologicamente questa stessa forma, e in essa si articola e si esprime quindi al contempo, tanto a livello percettivo quanto concettuale.
In altre parole qui le dimensioni del pensiero, del poetico e del vissuto psicologico si fanno oggetto, e oggetto bello. Come accadeva nell’arte barocca celebrata in tempi moderni da Benjamin e da Deleuze, qui, nelle ondulazioni dei tessuti e nelle forme curvilinee, si dispiega un fare e un sentire eminentemente poetico.
Tutte queste caratteristiche si articolano tanto nelle forme oggettive dei lavori, quanto nello spazio che esse delineano o letteralmente scolpiscono intorno a sé, attraverso il serpeggiante andamento delle sagome create con la stoffa cucita. In tal modo una scultura-vestito diventa habitus, rimandando a un ambito tanto etico quanto concettuale. La scultura cattura emozioni, pensieri e riflessioni, che fisicamente paiono imbrigliarsi nelle trame dei tessuti per essere poi liberate, al livello della percezione e della sensibilità estetica.
Un altro elemento fondamentale è costituito dal fatto stesso che la stoffa sia cucita, spesso a mano. Il cucire è un fare costruttivo e paziente, che produce realtà nuova senza ricorrere ad alcuna forma di hybris. Esso è culturalmente e tradizionalmente compreso come gesto propriamente femminile: richiama una qualità del sentire e di approcciarsi alla realtà particolarmente profondo e orientato all’osservazione, alla calma saggezza propria dell’antico mondo matriarcale.
Dal punto di vista estetico tutto ciò si traduce in un’acuta esperienza di percezione insieme visiva e tattile, che si accompagna a riferimenti talora poetici, talora più riflessivi e filosofici.

Due domande all'artista:

Come si coniuga nella tua ricerca la qualità estetica con quella concettuale del lavoro? L'estetica e il concetto secondo me sono due cose che non possono andare separate. Considero l'estetica molto importante nell'arte, vedo la bellezza come un valore, anche in questo momento storico. Oggi l'arte sembra così preoccupata di raccontarci tutti tipi di concetti e situazioni che ci portano a interrogarci su argomenti sociali e a sentirci responsabili di essi e anche ossessionata con la parte più crudele, infelice e sgradevole della realtà. Sembrerebbe che ci stiamo dimenticando della bellezza.
Allo stesso tempo però non posso pensare l'arte se questa non ha niente da dire. L'idea d'impegnarsi a fare l'artista é già di per sé un atto politico, perciò io non credo che esista un'arte senza messaggio. Non ho mai pensato all’arte come a qualcosa di tranquillo e affabile, bensì come a qualcosa che induce a riflettere, un luogo in cui tutte le discipline si incontrano e in cui ha molta importanza il processo creativo. Ovviamente il concetto è essenziale nel discorso artistico, e allo stesso tempo mi impegno molto nella qualità della messa in scena.
M'interessa il mondo che non sia dell'immediato, preferisco i processi lenti. Tutto il sapere ha un processo lento, anche la bellezza ha un processo e ha bisogno di tempo. Sono interessata alle situazioni che si costruiscono con una struttura e si sviluppano creando la propria armonia. Non si può improvvisare un concetto. Si può improvvisare gesto, una scintilla, un soffio. Ma un concetto si costruisce, si analizza, è oggetto di riflessione. Questo per me succede anche con l'estetica.

Perché hai scelto di trasferirti e lavorare in Italia? Con un passato d' immigrazione italiana e spagnola io non ho fatto altro che completare il circolo. Lo scrittore argentino Julio Cortazar diceva che noi argentini siamo circolari. I miei avi, spagnoli, portoghesi e italiani hanno cominciato questo viaggio che io continuo adesso, che forse sarà infinito. Noi argentini siamo come giocatori di questo meccanismo circolare tra il tempo e lo spazio. Ho vissuto 15 anni in Spagna e questo ha marcato fortemente il mio rapporto con il colore e i contrasti, la luce forte e le ombre profonde. Adesso, qui in Italia, cerco di capire quale esperienza sarà così forte da modificare il mio modo di lavorare. Alla fine tutti cerchiamo qualcosa, forse non facciamo altro che cercare un posto nel tempo.


 
 
 






 
 

ELIZABETH ARO - JAVIER GONZÁLEZ PANIZO



El arte, en su consabida muerte, no hace sino expandirse. Tanto es así que, de una u otra forma, todo es arte. Parece que el arte no solo se resiste ha llevar a cabo su acta de defunción sino que lo llena absolutamente todo. Ejemplos hay para dar y tomar. Pero, lo extraño a veces, es que, lejos de paralíticas formas de urbanismo, alejado de periclitadas maneras de frivolidad y espectacularismo, el arte lo logra también según sutiles mecanismos. Ocultación y desmaterialización, consiguen una efectiva manera de reducir el campo expansivo del arte que, apenas son propuestas, se ve claramente que es en el ‘todo’ en donde tratan de anclarse.
Lo cierto es que desde Schiller el arte remite siempre a algo fuera de sí. La estética como finalidad desinteresada de Kant dio pronto paso a la más pura externalidad: si el arte es aquello a lo que no le va ningún concepto, no hay que ser muy perspicaz para proponer un arte como lo otro del concepto que nunca coincide consigo mismo. Pero lo desgarrador está ahí mismo: ¿cómo escapándose de sí mismo logra el arte venir a coincidir con su concepto? Nos hallamos en los límites de la dialéctica negativa de Adorno.
Se trata por tanto de un arte de la botella de Klein, un arte que toma a la cinta de Moëbius como ejemplo perfecto y que se resume en aquellos intentos de Duchamp por conceptualizar lo ‘infrafino’: aquello en que exterior e interior coinciden.

Pero, en el fondo, no es algo tan extraño a nuestras filosofías. Ser es siempre ser otra cosa, pensar es siempre el pensamiento de otra cosa. En definitiva, en un mundo donde ser y deber ser nunca coinciden, la distancia que Marshall McLuhan postuló como esencia del arte se derrumba en un aleatoriedad que no propone, eso sí, sino lo mismo una y otra vez.
Sin embargo, el mundo, aquello que se delata como estetizado por completo, es demasiado complejo como para ser recubierto por completo. Siempre hay fugas, puntos de torsión y de ruptura.
Lo que Elizabeth Aro propone en esta exposición es dar forma a lo informe de un mundo desgajado en estructuras semióticas altamente conceptualizadas. Así pues, la expansión del arte que ella propone, intenta amoldarse a los genéticos devenires de unos constructos, los existenciarios de unos “mundos de vida”, fagocitados desde su propia génesis,
Así, la estrategia es postularlo todo sin enseñar nada más que el esqueleto. Si a todo pensamiento le es posible adscribirle una forma, lo que en Wittgenstein vendría a ser primero una proposición y más tarde un determinado juego del lenguaje, Elisabeth Aro trata de hacer lo mismo desde la estética de las formas. Para ella las formas son datos a-proposicionales que conjugan determinados sentimientos y pensamientos. Su arte es de esta manera proyectivo, la percepción que propone es altamente evocadora, y la dialéctica exterior /interior es fragmentada por completo.
Para ello, como decimos, toma los datos del exterior como redes de formas que proponen determinadas topologías evocadoras. Llegar al fondo de ellas puede coincidir con alcanzar el vacío, perderse en sus propuestas coincide con dejarse obnubilar por formas seductoras a veces o tétricamente complejas otras. En una palabra, superficie y profundidad vienen a coincidir y eso, o tranquilice o nos exaspera por completo.

Su propuesta no es nada sencilla y a menudo la dificultad del discurso hace que los árboles no dejen ver el bosque de una manera tan precisa como la que ensayamos aquí. Porque, además de lo hasta aquí dicho, también hay juegos de percepción basados en los finos materiales por ella empleados, también está la incomprensiblemente querida problemática de los objetos a la hora de ocupar un lugar, y la dialéctica público/privado como consecuencia primera del hecho de problematizar las referencias del espacio.
En definitiva un arte, el aquí propuesto, que trata de pescar con unas redes por las que todo se escapa. Pero el truco está ahí mismo: sólo dejándolas vacías, se sabe que las topologías aquí formateadas son capaces de proponerlo todo en su más concisa invisibilidad. Casi cabe apelar a la misma fe de los Apóstoles al ver las redes llenas: o realmente la complejidad está encerrada en las formas topológicas aquí presentadas o es que, ineluctablemente, al mundo le queda ya tan poco que no haya caído en las redes de la banal estetización que, efectivamente, las redes están vacías.